Un pomeriggio
“Di
qua!”, urlò la donna con voce argentina.
Correva tra la selva
verdissima orientandosi alla perfezione, io ne seguivo la voce perchè
tutto quello che potevo vedere erano porzioni delle sue gambe nude
lampeggiare tra le radici contorte degli alberi.“Siamo
quasi arrivate!”.Si fermò al limitare di una piccola radura,
muri verdi protesi verso un cielo bianco di luce, odore di muffa e di
stantio, verde, odore di verde. Facendo qualche altro passo mi indicò
un punto al margine estremo dello spazio e vidi una carcassa di
qualche quadrupede, probabilmente un cane.
“Lidia,
perchè mi hai portato qui? Questa discussione non potevamo farla a
casa? Davanti a un bicchiere di vino, magari”.“Assolutamente
no”, disse lei accosciandosi sui suoi pantaloncini cortissimi, lo
zaino minuscolo fra le mani,
“e quanto al vino l'ho portato io, e
pure i bicchieri. E siccome sono la tua amica preferita e ti conosco
bene, ho portato pure i fuochi d'artificio”, disse con un sorriso
malizioso, mostrandomi una busta d'erba che aveva in una delle tasche
della borsa.Presi
la busta d'erba e cominciai a girare una canna, avvicinandomi
lentamente al cadavere.“Ah,
Porter. Era un cane simpatico. Dovremmo seppellirlo, e poi dirlo a
Mary. Le spiacerà davvero tanto”.“Tutti
ci dispiacciamo per la morte. Per la morte di un animale in
particolare”.
Lidia stava seduta su una roccia muschiosa, e
guardava assorta i resti del cane, due bicchieri di vino nella mano
destra. Tornai da lei e mi sedetti ai suoi piedi, prendendone uno dei
due.
Mi sorrise. Biondissima e senza trucco dimostrava quasi la
metà dei suoi trent'anni.
Sorseggiammo in silenzio, poi riposi il
bicchiere su un tronco mentre accendevo la canna.
Aspirai
profondamente.“Allora,
che mi devi dire? Mi hai portato qui solo per Porter?”“No,
certo che no. Porter è stato incidentale. Ti ho portato qui per
parlare un po' più liberamente di come faremmo se quella stronza
della tua inquilina non girasse sempre per casa a ficcanasare. Porter
però potrebbe essere un importante spunto di conversazione”.
Mi
sfuggì una smorfia, sapevo che Lidia non aveva nessuna simpatia per
la mia coinquilina, ma da qui a chiamarla stronza...oddio, era pur
vero che origliare era un suo brutto difetto.
Momento di silenzio,
altra boccata.
Sentivo l'erba bruciarmi piacevolmente in gola,
come un fresco liquore frizzante.
Sentivo anche il sangue
sciogliersi piano piano, scorrere di nuovo al suo ritmo normale nelle
vene.
Dopo anni di assuefazione, paradossalmente ero più me stessa e
più lucida quando avevo fumato piuttosto che da sobria. Passai
lentamente la canna a Lidia, mentre affondavo gli occhi nella
vegetazione.”Quanti
strati...quanti strati di foglie, di rami, di sterpaglia, di
verdemarronearanciocrarossonerogrigio, di forme, di volumi. Cazzo, è
un mosaico intricatissimo”.
Lo dissi a voce alta, dando fiato ad un
pensiero, senza nemmeno accorgermene.
Lidia scoppiò a ridere.”Che
cazzo ridi, scema!”, ma stavo già ridendo pure io.
Mi diede una
leggera pacca sulla spalla, tra il canzonatorio e l'affettuoso, la
canna tra le labbra e i capelli illuminati dal sole, come se fossero
un' aureola.“ Sapevo
che avresti detto una cosa simile prima o dopo. Scommetto anche che
stavi per tirare fuori una analogia col mondo dell'informatica. Tipo
che tutti quegli strati sono come stringhe, e ogni singolo oggetto
che li compone bit di informazione.
Non è così?...Ah ah ah ah! E'
così, è così!”
Ed era vero, lo stavo pensando veramente.
Lidia continuava a ridere, si fermò solo qualche istante dopo per
riattaccarsi al bicchiere porgendomi di nuovo la canna.“E'
vero. Va bene, lo sai che ho una testa che funziona a modo suo, che
ci posso fare”.“Ma
a me piace. Voglio dire, per quanto le tue idee siano strampalate mi
piace come vedi il mondo. Alle volte penso alle cose come potresti
pensarci tu, e mi sembra che acquisiscano una oggettività
diversa”.“Dai,
non mi sfottere”.“No,
davvero. Ti ricordi quando parlavamo della sinestesia? Da quando
l'abbiamo fatto non penso più, per esempio”, alzò il bicchiere
verso il sole, e il vino divenne una coppa di sangue fluorescente,
“che sto bevendo del vino. Ci sento il rosso, dentro. Il rosso
cupo, quasi nero. D'improvviso ha il sapore dei temporali, e i
temporali sono quelli di terre lontane, orientali, e immagino la
stessa nuvola gravida di nero e di rosso scaricarsi in mezzo al
deserto, dove donne velate dagli occhi neri come la notte si
rifugiano nelle loro case di sabbia, case profumate di spezie grezze
e tinture per tessuti preziosi. E' bellissimo...ogni sorso è un
mondo.”
La guardai stupita, espirando.“Diamine
Lidia, fumare non ti fa mica bene sai?”
E giù a ridere.
Ripresi
il discorso: “la sinestesia è uno dei modi più naturali per
vedere il mondo, secondo me.
E intendo proprio vedere, non
guardare. L'accostamento e l'analogia ad un livello così stretto
permettono di strutturare e incrociare sapere ed esperienza,
trasformandole in una tessitura interiore...dov'è la busta? Ah
ecco...dicevo?...tessitura interiore che non ha niente a che vedere
con la nozione ma con il vissuto. E' più naturale.”“E'
come quando impari sognando.”“Sì.
Sì è così.”
Ancora silenzio.
Lidia si era di nuovo assorta
guardando un cespuglio poco distante, attorno al quale volteggiavano
delle minuscole farfalline multicolore.
Mi misi a rollare un'altra
canna, e quasi accecata dalla luce intensa che in quel momento
scendeva dritta sul mio capo, socchiusi gli occhi. Annullato un solo
istante il senso della vista, mi travolse il rumore
dell'ambiente.
Vento leggero tra le foglie, uccelli d'intorno, il
ronzio delle mosche sul cadavere di Porter.
Di nuovo quella
sensazione di stratificazione. Livelli su livelli, tridimensionalità
crudele e inafferrabile. Provai un momento di fastidiosa vertigine,
per cui mi spostai in un angolo più ombreggiato.
Accesi la
canna.
Quattro tiri a pieni polmoni, altro bicchiere di vino in
scivolata.
Ne girai automaticamente un'altra che porsi a Lidia,
che nel frattempo era scesa dalla roccia per stendersi all'ombra,
vicino al cespuglio con le farfalle. Era totalmente rapita da
esse.
Rimanemmo così per qualche altro minuto, senza nessun
imbarazzo per il silenzio.
Sapevo che anche lei come me stava
ascoltando i rumori.
Forse stava pensando a quello che pensavo io,
agli strati.
O forse stava cercando di indovinare quello a cui
pensavo.
Mi sorpresi a fissare un punto distante nel bosco, da
diverso tempo ormai, mentre con un pigro e finto sesto senso cercavo
di percepire Lidia stesa poco distante.
Ma stava scivolando via
tutto, la mia amica mi pareva un'isola distantissima nel tempo e
nello spazio, e perdersi sembrava piacevole.
Mi immersi in quella
sensazione. Non era perdersi, era...era
qualcos'altro...era...verde.
Stormire delle foglie.
Adesso
sentivo chiaramente anche un ruscello, probabilmente nelle nostre
prossimità, che mormorava qualcosa alle pietre sulle quali
scorreva.
Forse pregava, o forse le stava rimproverando.
O
forse ancora stava recitando il suo monologo senza preoccuparsi di
loro.“Siamo...siamo
alieni?”
La voce di Lidia era terrosa e sorda, mi giunse da
lontano.“Eh?”“Siamo
alieni?” si rimise a sedere, a gambe incrociate.
Non so perchè
ma pensai fugacemente che aveva un ventre perfetto per ospitare un
bimbo.“Che
vuol dire?”“Alieni.
Diversi. Provenienti da mondi diversi. Diversi tra di noi, e mai
totalmente comprensibili a noi stessi e agli altri. Siamo di fuori
intendo, stranieri? Siamo...separati?”
Corrugai la fronte, che
mi parve fatta di catene montuose.
Mi guardai le mani come se non
fossero le mie, cercando di capire il senso della domanda della mia
amica.
Guardai lei. Era diventata una statua di sale, un Buddha
dei boschi, ma con l'aria inquisitoria e un po' preoccupata. Espirava
il fumo dal naso.
Scossi la testa cercando di ritornare un po' in
me, mi sentivo completamente sparsa nell'ambiente.
Forse non ero
poi così padrona di me stessa.
Lidia era immobile e mi bucava con
gli occhi.
Ero la sua ancora, probabilmente anche lei sentiva di
stare sciogliendosi.
Solo quando finii il discorso mi resi conto
che l'avevo detto proprio io, con la voce roca e atona:“Certo
che lo siamo. Siamo figli delle stelle, noi. Letteralmente. Le
molecole che formano il nostro corpo si sono costituite da residui di
polvere cosmica, da detriti di impatti di corpi celesti, da sostanze
chimiche provenienti dallo spazio esterno che poi in miliardi di anni
si sono combinate in maniera più o meno casuale fino a costituire
quello che siamo noi. Non solo noi, tutto il nostro pianeta.
Cerchiamo dio nei cieli, esattamente da dove veniamo noi. Ironico.
La
Terra è un' astronave.
Tutto quello che contiene, animali,
piante, uomini, pietre, tutto è nato da quello.
A guardare bene
siamo fratelli anche dei sassi. Siamo un tutt' uno.
Vibriamo dello
stesso tipo di elettromagnetismo delle cose inerti, a frequenze
differenti magari, ma è lo stesso. Mai sentito parlare della teoria
dei campi morfogenetici? Sai, quella che dice che ogni idea ha una
sua frequenza specifica, e che ogni cervello può sintonizzarsi su
quella frequenza e ricevere quell' idea. Questo spiegherebbe perchè,
ad esempio, due scienziati che non si conoscono e che abitano a
migliaia di chilometri di distanza raggiungono la stessa invenzione a
distanza di qualche giorno. Non se ne parla, ma succede molto più
spesso di quello che potremmo immaginare. Pensa solo a questo, e ti
rendi conto di quanto siamo collegati. E sì, siamo alieni. Siamo
separati da ben poco però. L'idea di separazione stessa è solo ad
uso e consumo di chi vuole differenziare o definire i poteri. Tutti
siamo un Tutto. Anche Porter.
Porter era nostro fratello,
Lidia.
Siamo alieni, e siamo una sola cosa.
E pensa un po', il
dio che andiamo cercando non è altro che le nostre stesse origini.
Siamo noi quel dio, Lidia.”
La mia amica mi stava guardando con
due occhi immensi.
Immensi e oceanici.
Si girò lentamente a
guardare il cadavere del cane.
Pensavo che stesse per mettersi a
ridere perchè ero stata forse troppo patetica, anche se tutto quello
che avevo detto lo pensavo e lo sentivo veramente.
Sapevo che era
l'unica verità assoluta che potevo dire con onestà di conoscere, di
tutta una vita.
Invece la guardai mentre le si arrossavano gli
occhi, e cominciò a piangere sommessamente.“Porter...nostro
fratello?”, disse con la voce smarrita di una bambina che comprende
una cosa serissima.“Come
abbiamo fatto a non accorgercene prima,” proseguì, “e non
intendo solo del povero Porter...perchè adesso che me lo dici lo
vedo. Vedo tutto chiaramente. E capisco anche che l'ho sempre saputo.
Perchè facciamo finta di non saperlo? Questa è una colpa orribile,
Diana, come facciamo a far finta di nulla? L'umanità intera,
cazzo!”“Lidia,
adesso stai esagerando. Non sono mica la prima che lo dice. E nemmeno
l'unica. Forse è che adesso sei disposta a sentire, tutto qui.”“Oh
sì. E non voglio dimenticarlo più.”
Si alzò da terra con un
gesto incredibilmente energico, considerando come fosse atterrita
solo qualche istante prima.
Mi sorrise con gli occhi pieni di
lacrime.“Voglio
seppellire nostro fratello. Mi dai una mano? Lo onoriamo, e facciamo
per lui questo ultimo atto d'amore. Vuoi?”
Lidia, tra i quindici
e i trent'anni, con un sole radioso nel petto e le sue lunghe gambe,
gli occhi come oceani azzurrissimi e il volto commosso, di fronte a
me.
In quel momento cancellò il tempo.
Mi allungò la mano per
aiutarmi ad alzarmi.“Certo,
facciamolo.”
Andammo a casa mia a prendere un badile, un sacco
di juta e dei guanti, in silenzio totale.
Tornammo alla radura con
un senso di solennità emozionata, e sempre in silenzio scavammo una
buca profonda per il nostro amico.
Sollevammo delicatamente il
corpicino rigido di Porter e lo adagiammo con cura sulla juta che
avevamo disposto sul fondo della buca.
Mi sentivo totalmente
concentrata, con il cuore aperto e senza bisogno di alcuna
difesa.
Avevo un sentimento dolcissimo dentro, che sgorgava
continuamente in un abbraccio caldo d'amore per la Vita, la vita in
genere e per tutte le creature.“Aspetta”
sussurrò Lidia, evidentemente anche lei nel mio stesso stato d'
animo, “non possiamo seppellirlo così...ci manca qualcosa.
Dovremmo brindare a lui, non so, mettergli qualcosa perchè possa
stare...non so, più comodo. Per il suo conforto.”
Avevamo solo
vino ed erba.
Così non mi sentii ridicola a mettere tra le zampe
di Porter il resto del vino nella bottiglia e quel po' d'erba nella
busta che era avanzata.
Mi sembrava anzi che gli avessimo fatto un
dono bellissimo.
Semplice, e bellissimo.
Poi rimanemmo a
guardarlo ancora qualche istante.
Mi trovai a piangere, e Lidia
con me.
Ma avevo anche un senso di pace nel cuore.
Un senso di
armonia.
Eravamo in armonia, in ordine con il tutto, eppure era
stato un gesto così semplice.
Ricoprimmo di terra la buca, e per
ultima cosa cogliemmo qualche fiore dall' area antistante la radura,
e li depositammo sul piccolo tumulo di terra.
Poi
rincasammo entrambe ancora emozionate, in silenzio.
Lidia mi
chiese di usare il bagno e dopo avermi abbracciato a lungo se ne andò
senza dire nemmeno una parola.
Il giorno dopo andai dalla
proprietaria del cane e le dissi che lo avevamo trovato morto, e che
l'avevamo sepolto nella radura. La signora si mise a piangere ma mi
ringraziò calorosamente.
“Amavo
quel cane come fosse il mio piccolino. Lo avevo chiamato Porter in
onore di un fratello che persi in guerra, un fratello che amavo
perdutamente.”
Le
sorrisi e tornai a casa.
Il
mio cuore abbracciava Tutto.
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