domenica 4 maggio 2025

Mesquiza

Guarda la campagna.

La guarda.

La sente scorrere sotto di sé, sotto i suoi occhi.

Sente le radici da sotto i suoi piedi allungarsi, sottili, come piccole antenne biologiche, cercare la terra.


La terra bagnata, la terra che è casa.

Sente il fresco velo dell’umidità dell’erba solleticare i suoi nuovi pedicelli ambulacrali.

Una stella marina terrestre.


Col mento appoggiato al palmo, guardava fuori dal finestrino, completamente assente al treno che la ospitava e totalmente assorbita dall’essenza della terra.

Persino dentro la cabina pressurizzata poteva sentirne l’odore muschiato, verde, selvatico e dolce.

Terra che mai s’ammansisce, generosa come una madre, giumenta d’ogni capriccio dell’uomo.


Cercava di carpire il senso profondo del suo ultimo pensiero, che aveva accuratamente costruito partendo da un nulla, un minuscolo nulla: giocando a Go con la logica ne aveva estratto un succo purissimo, eppure tanto astratto da non riuscire a verbalizzarlo.

Ma la terra stava lì, e aveva cominciato a chiamarla.


Campagna, fitte righe orizzontali, dischi d’albero e margini frastagliati.

Ritmo pittorico continuo, infinito, ipnotico.

Eppure ci deve essere un segreto, un segreto da poter carpire. Da custodire”.


Un segreto di cui farsi una collana di saperi da intrecciare con tutto il resto, per dare senso, ordine.

Un minimo comune multiplo, la matrice del frattale.


Dove si perde, dove si perde, dove va questa donna assorta, con le radici aeree a cercare la sua madre primigenia, con la testa tanto in alto da sentire il primo freddo siderale sulla fronte”.

E’ che aveva imparato che tutto è appiglio in tempi d’alluvione.

Tutto serve.

Anche quel velo argenteo che le copriva gli occhi e il cuore.

Quel velo sottile che impediva l’osmosi, che schiacciava il respiro, che toglieva lucentezza alle cose.


Ma aveva imparato a ridere e a sorridere anche attraverso esso.


Alle volte pensava che potesse essere una perversa forma di autodifesa.

Sapeva che ogni cosa del suo sé aveva un compito, perciò, col tempo, invece di censurarsi, ascoltava ogni voce – sì, ogni voce, a rischio di diventare schizofrenica -

ma ogni voce doveva potersi esprimere, perché sentiva d’avere in sé ben di più della summa di se stessa.


Forse, e dico forse, aveva qualcosa di divino, ereditato dal Padre. O dalla Madre.

Se esiste un Dio.


Sicchè abbracciava in sé tutto quello che poteva e il suo contrario, perché dei dualismi le interessavano le contraddizioni, delle idiosincrasie la capacità di allargare il sensibile; sapeva che è nel non detto, nel non visto, nel non ascoltato, in ciò che si rifiuta, che stanno spesso le più piccole, palpitanti verità.


Non si scappa, non si fugge.

Non per eroismo, ma per sete di conoscenza.


Cosa c’è oltre, cosa viene dopo. Cosa c’è qui sotto. Cosa c’è dietro.

Avesse potuto scomporre ogni parte dell’esperibile in un ipercubo l’avrebbe fatto.

Ma ahimè le sue eredità divine si fermavano alla mera ontologia.


Si era fatta sera, la campagna era diventata grigia come il fumo della Londra industriale, e il cielo infinito blu come il lapislazzuli di Babilonia.

Qualche timida stella cominciava a tremare nella propria luce, e l’orizzonte si faceva via via più confuso.

Il processo di estensione non era terminato: nel seguire il filo dei suoi pensieri, sempre più rarefatto, aveva perso il contatto con la realtà.

Ma ora che aveva visto la sera, era ritornata per un attimo al tangibile.

E diamine, si sentiva strana.

Si sentiva improvvisamente troppo piccola per il sedile, e le sembrava di sbattere la testa sul soffitto della cabina quando il treno sobbalzava leggermente.


Muovendo solo gli occhi, si guardò intorno: era sola.


Aveva la sensazione di non riuscire a percepire completamente il suo corpo, né riusciva a muovere la testa agevolmente.

Pensò che forse avendo mantenuto troppo a lungo la posizione in cui era seduta, probabilmente il corpo s’era intorpidito e aveva perso sensibilità.

Non riusciva a muovere le braccia né le gambe.

Solo gli occhi.

Sforzandosi molto riusciva a girare la testa di pochissimo, e con un certo dolore.


In realtà la cosa non la preoccupava granchè, la sua attenzione era comunque assorbita altrove, e cioè nella sua testa.

Si rimise a guardare la campagna.


Si era da sempre considerata figlia della campagna e del mare, come d’altronde erano le origini dei suoi genitori: il padre dalla terra, agricoltore, e la madre dalla laguna, creatura d’acqua.


Quando era molto piccola sua madre soleva chiamarla col soprannome di mesquiza, che nel dialetto locale significava “dell’acqua salmastra” riferendosi giocosamente alla doppia natura che la bimba aveva in sé.


Le doleva il collo, ma non riusciva ancora a muoversi.


L’acqua salmastra non è acqua che si muove: è il punto dove l’acqua dei torrenti e dei fiumi raggiunge il mare, e crea delle pozze di una soluzione che tende a rimanere immobile nella sua zona.

Questo la donna lo sapeva, ma all’improvviso ne realizzò il simbolismo.

Sua madre ci aveva visto lungo.


Tutto questo pensare, questo pensare costante: certo dava i suoi frutti.

Le permetteva accesso a strati più profondi, forse ad una maggiore comprensione di alcune aspetti delle cose.

Ma anche più confusione.

Dietro una domanda non trovava mai una risposta, ma altre dieci domande, in un ciclo continuo di discesa nel significato, sino a quando pure quello era smarrito, svuotato. Saturato semanticamente.


E buon dio, quanto si espandeva quella saturazione!

Arrivava ad inondare e a seppellire sotto una lucida coltre di confusione tutto quello che toccava, lasciando solo uno specchio dove la donna guardava la sua figura riflessa senza più riconoscersi, come un Narciso amnesico.


Pensare, pensare, pensare, senza mai una azione.


Senza una carne per quei pensieri, senza concludere la loro forma in qualcosa di concreto, che indirizzasse ed esaurisse la loro energia, come è in Natura, nell’economia dell’esistere.


Inattiva, immobile: come l’acqua salmastra.


Cercò di raddrizzare la schiena, che era diventata dura.

Ma non riusciva a muoversi.

Continuava a guardare la campagna ormai nera, un dipinto di bitume a pennellate libere.

Astratta pure quella.

Irraggiungibile.

Diafana e incomprensibile, come la donna percepiva la profonda realtà delle cose.

Senza senso, senza un perché, senza un ordine.

Nessuna logica.

Nessun appiglio.

Nessuna possibilità di agire.

Come orientare qualsiasi azione in tanta insensatezza?

Era meglio rimanere immobili: un atto di protesta, secondo lei, ma anche la risposta più legittima all’assurdità dell’essere vivi.


Si accesero le luci nella cabina.

Gli occhi della donna, fissi sulla nera campagna ridotta ormai un guazzabuglio di segni, ci impiegarono qualche minuto ad abituarsi alla luminosità.


Per un attimo le sembrò che ciò che vedeva all’esterno fosse stato dipinto dal figlio impossibile di Twombly e Rothko.

Questo fu l’ultimo suo pensiero mentre, avendo recuperato la vista, notò i riflessi provenire dal vetro del finestrino dove si specchiava lei stessa.


Aveva notato, dapprima impercettibilmente, dalla distanza immane che separava la sua contemplazione interiore dall’esterno, dal reale, delle macchie bianche attorno alla sua sagoma.


Riflessi luminosi in tutto quel nero.


Cercò di metterli meglio a fuoco con gli occhi, non potendo muoversi all’indietro.

Li osservò per interminabili minuti senza capire cosa fossero.

Sembravano piccoli batuffoli di cotone, ma avevano una forma più definita.

Col passare dei minuti si rese conto che alla base di ciascuno di essi partiva una piccola riga scura, nodosa.

Percorrendo una di esse con lo sguardo, notò che mano a mano che scendevano verso il centro, il diametro della riga si ispessiva.

Percepì, laddove dovrebbe esserci stata la sua ombra, una sorta di rugosità indistinta, grigiastra.

Non riusciva a capire cosa stesse vedendo.


Cercava il riflesso del suo viso, dei suoi abiti, ma non lo trovava.

Al suo posto c’era questa cosa organica, indecifrabile.

Ma dov’era lei? Non si trovava.


Con uno sforzo immane, puntando il gomito sul poggiolo del sedile, cercò di spingersi un pò più distante dal vetro, per mettere vedere meglio quanto stesse osservando.


Ottenne, con immensa fatica, un movimento di qualche centimetro.

E vide che quella cosa riflessa si allontanava dal vetro della stessa distanza e con lo stesso sforzo da lei profuso.


Una grande agitazione calò su di lei in un istante: quella cosa non stava fuori.

Era il riflesso proveniente da un oggetto all’interno dalla cabina.

La distanza ottenuta le permise di analizzare meglio quanto stesse vedendo: rimase ad osservare.



Quelle forme le erano familiari, ma non si ricordava dove le avesse già viste.

Rimase così per un lasso di tempo interminabile, a guardare.


Poi, fulminea e vertiginosa, fu colta dall’illuminazione.

Vide distintamente formarsi, in ognuno dei batuffoli bianchi, la forma di petali.

Riconobbe le linee nodose per quello che erano: rami.

Osservò il centro di quella che avrebbe dovuto essere la sua figura, non vedendoci altro che un tronco, e non il suo torso.


Sognava? Allucinava?


Avrebbe voluto alzarsi di scatto, saltare via da quella realizzazione, provare a se stessa che poteva ancora muoversi.

Avrebbe voluto, ora, realizzando l’assurdità di quanto era accaduto, tornare indietro.


Smettere di rimanere immobile, tornare ad agire sull’esistere, sul cambiare le cose, le situazioni.

Avrebbe voluto rinunciare all’immobilità che l’aveva sempre accompagnata.


Invece quell’eterno pensare senza soluzione, senza azione, era cresciuto dal suo interiore come un seme, alimentato da anni di immobilità, sino a prendersi pure la sua carne, trasformandola in altro.


Cercando di ascoltare i limiti della sua figura, sentì che i suoi piedi non erano più gli stessi, ed afferravano il pavimento con una forza sovrumana.

Sentì la rigidità nelle gambe, nelle braccia, e spostando la sua attenzione sull’epidermide, sentì che non era più liscia e sottile come l’aveva sempre percepita, bensì spessa, rigida, come fosse...corteccia?


Trovò ironico e crudele che il fato avesse scelto per lei una forma così elegante e positiva, estetica, romantica. Una sorta di irrisione, forse.


Ci volle ancora qualche istante, per intendere.


Sgomenta, atterrita, strabiliata, capì all’improvviso che quello che stava vedendo era il riflesso della sua nuova forma, una manifestazione esterna del suo interiore.


La forma segue la funzione, dopotutto.


Un albero di magnolia di forma vagamente antropomorfa stava seduto – sì, seduto!- laddove il suo corpo avrebbe dovuto trovarsi.



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On repeat:















domenica 9 febbraio 2025

Essere e Artista

No, non mi ci metto nemmeno.

Non è che volessi tirare in ballo Heidegger ma un piccolo omaggio glielo si fa sempre volentieri (Martino tvb <3).

Veniamo ordunque a noi.

Il mio primo insegnante di Pittura soleva ricordarci, ammonendoci, che un artista è tale 24 ore su 24.

Un arista pensa come un artista, parla come un artista, mangia come un artista, vede come un artista, etc, etc.
Insomma un artista deve essere un artista, a priori, ontologicamente parlando, prima di fare l’artista.

Sacrosante parole! Banali quanto vere come quasi tutte le cose sagge.

Ebbene, per quanto grazioso possa essere l'essere artisti, con tutti i suoi divertissement, le sue stranezze, le sue golosità intellettuali e sensorie, quando uno ha la vocazione per davvero si trova di fronte ad una certa incapacità di vivere la vita passivamente.
O meglio, di vivere una prospettiva di accettazione: ci deve mettere mano, mescolare, scolpire, modellare.

L'artista ha un animo bastardo, testardo, cocciuto e strafottente.
L'artista deve creare.
Deve manipolare, deve controllare, deve plasmare ogni cosa della sua esistenza come se egli stesso fosse il creatore della realtà. E’ un bisogno primario, un modo intrinseco della sua anima, l’unico modo che egli conosce per vivere.

Volontà di potenza, diceva il nostro caro Federico N. (direttamente dal gruppo in incognito dei Filosofi Anonimi) - ecco, l'artista ne trabocca.
Intesa sia in senso proprio, come "
meccanismo del desiderio nel suo stesso funzionamento incessante: il desiderio vuole continuamente e senza sosta il suo stesso accrescimento, dato che il desiderio è pulsione infinita di rinnovamento", sia come la volontà di potere, cioè di influenzare e manifestare agenzia sulle cose e sul mondo.



Ah, le lotte.
Le battaglie di sangue, i momenti di disperazione, il dolce torturarsi nelle croci del mestiere, la delizia della dialogo schizofrenico e bipolare, maniaco e atarassico che accompagna le giornate dell'Artista. 
Il travaglio interiore, la sofferenza del non riuscire, l'esigenza dolorosa del possedere la realtà, del conquistarla, del riplasmarla secondo la propria volontà e visione.

La fulgida bianca fiamma dell’ispirazione, che colpisce come la freccia di Eros, che solleva, che inonda di dopamina, che ruba i sogni alla notte e infesta i giorni di visioni.



Perchè se tutti hanno un angelo custode e un diavolo sulle proprie spalle, l'artista è abitato, posseduto, da un Daimon e da un Demiurgo.

Archetipi questi, che sono il centro dell'attitudine artistica in un'anima - e come tutte le cose numinose, hanno anche dei lati nefasti.

Prima Socrate, poi Platone e Aristotele, si sono avvicendati nel dare una carne a questo concetto primigenio, autoctono dell'animo umano. Socrate individua il seme della propria coscienza, che gli suggerisce come comportarsi in modo etico e morale, nella voce superiore del Daimon, essere semidivino e nume tutelare; secondo Platone, prima di nascere noi scegliamo il nostro destino, ossia la missione che svolgeremo sulla Terra, nonchè un Daimon, il quale ci ricordi e ci guidi attraverso la nostra vita verso il raggiungimento del nostro scopo: il Daimon è pertanto voce della nostra coscienza, la vocazione, e il "portatore del destino". 

Nel tempo la figura del Daimon viene rivisitata e arricchita di diversi ruoli e significati attraverso la sua rilettura dai discepoli di Platone, come Senocrate - che introduce la dualità nella figura del Daimon (essere dapprima benigno-neutro e ora in possesso anche di attributi negativi o nocivi), passando poi attraverso Neoplatonismo e Stoicismo sino ad arrivare al Cristianesimo, che essendo sempre ottimista e costruttivo decide di connotare alla parola Daimon una prerogativa esclusivamente negativa, da cui infatti deriva il Demone, lo Shaitan, il Nemico. Il Diavolo insomma.

C'è da dire che sotto soglia buona parte di questo lavoro di traslazione di significato è stato operato dallo Gnosticismo, che con il suo sincretismo ontologico ha attinto, nei secoli di passaggio tra la cultura ellenica e quella romana, non solo dalle stesse ma anche da mitologie locali tra cui religioni misteriche, culti agresti e ctoni, ebraismo, neoplatonismo, cristianesimo, zoroastrismo, zurvanismo.

Nella esegesi gnostica, dove ciò che porta alla salvezza è la conoscenza esoterica, il Daimon è spesso associato agli Arconti, servitori del Demiurgo nella sua missione di intrappolare l'Uomo nel mondo materiale.

Il Demiurgo (parola che significa artigiano, creatore), a sua volta, è il grande artigiano, il costruttore della realtà fisica opposto alla Monade o Padre, il vero Dio, che invece emana energia creativa e spirituale, ed è assolutamente Buono: il Demiurgo interviene materialmente sul mondo, in quanto ha solamente il potere di plasmare materia già esistente, il Padre emana energia creativa con la quale origina gli Eoni, simboli a loro volta delle alte qualità spirituali e intellettuali. 
 

Per fare un piccolo passo indietro, è interessante notare che nel Simposio di Platone, dove si racconta la nascita di Eros da Poros (pieno di risorse, ingegnoso, abbondante) e Penia (miseria, mancanza, ma anche bisogno), il "dio" dell'amore non è descritto come divinità ma come "grande daimōn". Il Daimon, per Platone, è un entità sospesa tra il divino e il mortale, che funge da messaggera tra la dimensione divina e quella umana.

L’allegoria dicotomica di Eros rende evidente come la condizione di innamoramento è determinata al contempo da una grande abbondanza e da una profonda mancanza.
Direi che si può facilmente vedere come la coesistenza di queste due situazioni interiori si possa sovrapporre ai due principi etologici che secondo Maccacaro sono il principio originante di ogni attività animale, la fase appetitiva e la fase consummatoria, ossia la tensione tra desiderio e realizzazione, dinamica di scaturigine del processo creativo.

E cosa sono infatti l'amore, l'ispirazione intellettuale o artistica, se non una sorta premonizione dell'inesplicabile? Frammenti di qualcosa d'altro, di misterioso, che ci capita di percepire (o di subire, o di soffrire, e chi più ne ha più ne metta)? 

"È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili. Solo allora la vita è completa", affermava Jung.

La figura del Demiurgo, invece, solo ingannevolmente sovrapponibile nella sua quiddità a quella del Daimon, viene descritta nel Timeo dal nostro caro amiiiiico (da leggersi in falsetto) Platone come volontà ordinatoria: all’inizio il mondo non era altro che materia informe, ossia chora - o necessità. 
Il Demiurgo, essere semidivino e benigno, plasmò da questo bisognoso disordine delle forme ordinate, per farla assomigliare al modello perfetto dell'Iperuranio.
Ma nello Gnosticismo il Demiurgo diventa una entità maligna arrogante – perché vuole sostituirsi all’unico Dio-, ignorante – perché non sa di essere un sottoposto all’unico Dio-, che crea il mondo materiale per illudere e imprigionare le anime.

Lo gnosticismo basa fortemente i suoi principi creativi sul manicheismo, ossia la dualità polare maschio-femmina della facoltà generativa. Sophia e Cristo sono Eoni, come dicevamo sopra, pertanto emanazioni dirette della Monade. Essi incarnano rispettivamente il concetto di idea, di sapienza, e di logos, parola. Tecnicamente i due, che sono fratelli, erano anche sposi e avrebbero dovuto generare insieme. Invece Sophia, che godeva di una certa autonomia rispetto agli altri Eoni, da brava femminista disse: "sai che c'è? io mi basto da sola e l'utero è mio".
Così emanò
a sua volta il Demiurgo – un essere che non avrebbe dovuto essere! - senza chiedere il permesso a nessuno (tantomeno al padre biologico o al...nonno? Uno nel contemporaneo si dibatte sui temi della famiglia e di cosa la costituisce, ma anvedi un po' che nell'antichità a quanto pare il problema manco si poneva).


Perciò abbiamo una
sapienza che genera una competenza senza passare dalla parola.
Insomma, il Demiurgo rappresenta anche
la disobbedienza, le facoltà innate non vocalizzabili, in quanto egli nasce senza logos, direttamente dalla sapienza, e immediatamente si fa mediatore del noumeno al fenomeno.


Dopo questa lunga digressione, come cuciamo insieme tutti questi ingredienti di filosofia, di archetipi, di simboli, di allegoria, in una bella zuppa condita con la salsina magica dei miei pensieri ?

Col fuoco dell'Artista, ovvio. Basta guardare alle loro biografie.

Wittkower, fra i tanti, in Nati sotto Saturno raccoglie diverse testimonianze storiche sulle stranezze, le manie e i disagi di diversi artisti; ma anche sulle loro prodigiose facoltà e l’assoluta dedizione.

Artista divorato e ispirato da Daimon e Demiurgo, che lo abitano, lo muovono, lo costringono a cercare la mediazione tra il regno delle idee, e quello fisico, tangibile.

Arista innamorato, mosso dal sentimento che ha dentro, questo Eros allo stesso tempo spirituale e corporeo, fatto di nostalgia e desiderio, che cammina in equilibrio tra i poli che lo hanno generato - la capacità di attingere alle risorse interiori ed esteriori, ma anche la sensazione di mancanza di qualcosa, il bisogno di crearlo.

Artista disperato, che patisce la fame di un nuovo ordine. Che non può rinunciare alla sua agenzia nel quotidiano, nelle piccole cose. 

Artista affamato, che divora simboli del subconscio e del superliminale sia personali che collettivi per svelare o creare misteri, che scava nella cultura in tutte le sue declinazioni: popolare, folcloristica, artigianale, sapienziale, matematica, tecnologica, tecnica, di basso livello, tutte.

Artista come Prometeo, che porta agli uomini la luce del Creatore, che viola i patti, disconosce l'ordine superiore incontestabile, rigido e autoritario, per crearne un di comunitario, dove tutti possano entrare e riconoscersi, dove tutti possano collaborare alla creazione del senso.

Artista ribelle, che prende la Sapienza divina e la manifesta fisicamente, usando una saggezza intraducibile in parole (migliore definizione del fare arte io non la trovo). 

Arista messaggero, intermediario, comunicatore. 

 

Artista che poi nel quotidiano, fatto com’è, ponte tra divino e umano come il Daimon, imperfetto come il Demiurgo, fatica a non poter plasmare anche gli eventi della sua vita a piacimento - non è che una questione estetica, e pertanto, profondamente etica.

Ecco, l'Artista è tutte queste cose. 

Tanto gode quanto soffre, perennemente stimolato dall'amore per il suo bisogno e le limitazioni materiali, animato dall’impulso di creare a tutti i costi, che lo lacera, lo pungola, gli ruba il sonno e la fame. Non può mentirsi se non per dire una verità Altra, e non trova soddisfazione mai perchè il lavoro creativo non ha una fine o un fine.

Perciò io il motivo per cui il mio insegnante insistesse tanto su quella frase non l'ho mai capito: un artista non può che essere un artista.

Perchè altrimenti, semplicemente, non sarebbe.




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sabato 9 maggio 2015

Della rinascita

E sarà pure che non ho ancora attraversato le fasi del lutto in toto che già sto parlando di rinascita.
Ma come sopravvivere ad un progetto abortito, ad un sogno infranto, ad una gemma sottomessa dalla prima grandine primaverile?
Che fare.
E rimane un bell' universo di "se" di "ma" di "però".

Illuminazioni Rimbaudiane.
Inferni Baudelairiani.

O come cazzo si scrive.

Alle volte credo che tanta parte del nostro lutto, dell'accettazione di un fallimento, sia in realtà la reiterazione (più che una esperienza vitale) di una sorta di sterile modello di educazione sentimentale flaubertiano, non la cosa in sè, non così chiaro e diretto ma molto più esteso,diluito,
infingardo,
 -il dito e la luna -,
nascosto in tante storie contenute dalla letteratura.

Ecco, se non fossimo animali che leggono,
sapremmo come affrontare cotal situazione?
O meglio: ci comporteremmo così, se non fossimo letterati?

Perchè siamo tutti parlati, e non parliamo,
come diceva non ricordo chi.

Perciò, cosa ci rimane di puramente, veramente genuino, nell' affrontare un dolore?
Di umano, animale, di profondo e sincero.

Chè una costante mediazione metafisica dell'esistere ci condanna a pensarci e a ridefinirci in nuovi canoni, che è bene per quasi tutto, tranne che per le poche cose che avremmo, forse, bisogno di vivere istintualmente.

Il positivismo è una piaga che dona prospettive razionali, escapologiche ed escatologiche, grande e panoramica nel suo distinguere e ordinare; e toglie calore "cosale" all' ente noumenico di ciò che in realtà siamo.

Divisi fra natura ontologia e deontologica in senso kantiano.

Che ci rimane, se non il compassato lamento letterario, educato, raziocinante del civile?

Nemmeno l'uomo, in quel civile.

Non siamo forse liberi nemmeno di disperarci e piangere, dissolverci in quella catarsi che ci spetterebbe di diritto.

Se fossi un animale, vorrei poter piangere.
Piangere davvero, come si faceva da bambini piccolissimi.

Piangere, purificarmi in quelle lacrime.

Sfogare, sfogare, non abbrutirmi in sostanze e tranelli razionali, non creare artificiosi appigli di "se" e di "ma" come quindici anni di scolarizzazione mi costringono a fare.

Rinascere, forse, potrebbe essere possibile anche adesso.

Lasciarmi essere, animalmente, triste per questa perdita.
Senza dovermi perforza confrontare con essa, semplicemente accettandola.
Senza giustificazioni.


Il  problema è che so,
una volta di più,

che è ancora la ragione educata a parlare per me.

domenica 29 giugno 2014

Allegoria \ Tra lei e lei

Nel mezzo della conversazione, pensò che era il caso di lasciar perdere.
Conversare, poi, cosa significa veramente?
A parte il mero scambio di informazioni funzionali, intendo, quali <<serve lo zucchero>>, <<gira a destra>>, <<ti cercava Paolo>>, quando è che veramente si ascoltano le ragioni dell'altro, si comprendono, si cerca di interagire col suo sentito?
Forse, se accade tre volte in una intera vita è tanto, ma non per cattiveria, per i limiti umani.
Perciò decise di sbrigarsela dicendo semplicemente “hai ragione sotto tutti i punti”, e di andarsene quanto prima da quell'errore di traduzione.
La verità, se mai ne esiste una univoca anche per il singolo, che è ogni giorno abitato da diverse personalità, è che quel che aveva dentro doveva perforza tenerselo.
Così tagliò corto, e dopo aver messo velocemente il cappotto, con un falso sorriso di ringraziamento sulle labbra, uscì nella pioggia.
Era estate, piena estate, ma le temperature erano molto basse, quasi autunnali, a causa del lungo periodo di maltempo che perdurava da ormai due mesi.
Camminava lentamente con lo sguardo rivolto al porfido del marciapiede, senza tuttavia vederlo.
Si rendeva conto che la libertà è una cosa che nessun uomo può abbracciare completamente, veramente, e si sentiva schiacciare da questa idea: cos'è la libertà, se persino la persona più cara e più vicina può venire a dirti che non sei libero di essere te stesso nemmeno in sua compagnia. Cos'è, se poi “l' uomo non è un' isola”, e pertanto è costretto alle dinamiche sociali?
Cos'è, se neppure nell'angolo più intimo del suo sé, percepiva che neanche con il pennello tra le dita poteva accarezzarla?
Difficile, difficile, inghiottire la saliva con tale nodo in gola.
Tante incomprensioni.
La storia dei dialoghi dell'uomo, dalla nascita della prima parola in poi, è fatta di fortuite coincidenze nella traduzione di lessemi.
“Parliamone”, perchè mai?
Di cosa possiamo parlare, veramente?
Con quale grado di padronanza dell'argomento?
E tutto diveniva confuso, ancor più nebbioso e guizzante, nella sua testa.
Provò a sedersi su una panchina umida, sotto un albero, per accendersi una sigaretta.
Il fumo procurava una certa consolazione, in quei momenti.
Mentre osservava le volute di fumo allontanarsi, ripensava alla discussione appena avuta e ripassava vagamente alcune nozioni di filosofia che avrebbero potuto emergere da essa.

Volontà di potenza.
Piacere misurato.
L'esistenza è piacere.
La democrazia non è mai esistita.
La società dello spettacolo.
La società delle ideologie.
Percezione del sé.
Critica al capitalismo.
I regimi totalitari.
I regimi totalitari morbidi.
Il libero pensiero.

Una piccola parte del suo cervello era intento ad esaminare la possibilità che, essendo tutto un gioco di scatole cinesi, forse e per davvero il punto di vista può cambiare intere porzioni della storia umana.
Si chiedeva se fosse possibile, come ritengono certe culture, che effettivamente non siamo noi i sognatori, ma siamo sognati dal sogno.
In che direzione vanno, tutte queste affermazioni che ogni giorno l'essere umano produce?
Scienza, cultura, antropologia, spiritualità, economia, finanza, arti, società, politica...dove vanno?
Cosa delineano?
E perchè tutti cercano di sbrigarsi per arrivare lì più in fretta?

L'inseguimento dell'ignoranza è l'unica cosa che emerge chiaramente da questa serie.
Certo non si persegue la conoscenza, che è talmente poca.
Si insegue l'ignoranza, sicuramente, per affrontarla e diminuirla.
Come se ci fosse una finitezza, in questo.
Come se un domani un uomo infinitamente saggio, dopo il caffè mattutino, penserà l'ultimo pensiero pensabile, distruggendo così l' ultimo atomo di ignoranza rimasto.

Avverrà mai?
Non credo.
Non ascoltare il mondo, mi dicono, autodeterminati.
E come? Non potrei mai farlo, perchè avrei per strumenti chirurgici solo quelli che ho imparato dal mondo attorno a me.
Come potrei inventarmi una lingua solo mia, in cui parlare solo a me, poter pensare cose solo mie?
Puramente mie?
Non posso.
Non si può.
Il peccato (del pensiero) originale, tanto da dover maledire una intera specie per sempre.
Ma fino a qualche tempo fa, l'aveva pure intravista, la sua strada. Sapeva in che direzione andare.
Che ne era stato di quella visione?

E' che poi accade la vita, suppongo.
Le cose non sono andate esattamente come pianificato.
-Ma non avevi detto di non avere altra scelta che percorrere quella strada?
-Sono stanca. Non so se mi interessa più. Certamente ho più frustrazioni e malessere da quel che ho sempre creduto di amare, di riconoscere, piuttosto che ricavarne gratitudine quando lo pratico.
Si alzò un vento forte e fastidioso, freddo, da ovest.
Con l'espressione seccata, si rimise in cammino, senza avere alcuna meta.
Intanto, la sua testa pesava i passi giudicandoli molto simili all'esistenza umana, diretta verso non si sa bene cosa e perchè, costretta, per avanzare, a perdere ogni volta l'equilibrio, la certezza storica e politica, sociale.

Che poi, anche sull' “avanzare” ci sarebbe da ridire.
Il tempo lineare è una invenzione tanto giudiaco-cristiana che scientifica, una convenzione relativa esclusivamente alla nostra condizione esistenziale.

Sospirò malinconicamente, mentre guardando secchi rami si sentiva un quadro di Friedrich.
Qualche passo dopo, si rese conto d' essere tornata sulla stradina di sassi che conduceva a casa, e guardando in lontananza i muri grigi della stessa, realizzò che non avrebbe potuto scappare.
Mai.
Da sé stessa, dalla sua storia, dal punto nello spaziotempo che l'evento della sua nascita aveva disposto per lei -ovvio, senza alcuna volontà personale: il Fato non centra-, dal suo malessere e dai suoi stessi pensieri.
Non avrebbe potuto scappare, né affrontarli, perchè non erano demoni.
Non avrebbe imparato ad accettarli, perchè dissonavano troppo, nel momento in cui riconosceva le loro stonature nel regno dei suoni che è la vita.
Che fare?

Se l'aveste vista dalla finestra del piano superiore della sua casa, avreste potuto osservare la sua figura invecchiare a vista d'occhio nel corso di qualche minuto, le spalle scendere in avanti, la schiena curvarsi, il volto indurirsi, gli occhi spegnersi.
Poi, con passi lenti e stanchi, l'avreste guardata mentre si incamminava verso casa, e avreste saputo che sì, non potendo fare nulla,
non avrebbe fatto nulla.


martedì 10 giugno 2014

L' Altro

Quanto poteva dire di conoscerlo?
Bene, benissimo, assolutamente per nulla?
Se ne stava lì, seduto di fronte a lui, guardandolo con una faccia tra il disgustato e il beffardo.
Era incassato malamente sulla sedia coi braccioli, dall'altro capo di un tavolino che era un cimitero di bicchieri svuotati.
Aveva i capelli sporchi, unti, aggrovigliati, la pelle grigia e tesa, una espressione di odio rabbioso in faccia, e stava immobile a fissarlo.

Che cazzo vuole quello.
Che cazzo guarda.
Soprattutto, chi cazzo è.

Abbassa lo sguardo sul tavolo, si fissa le mani nodose.

Non doveva andare così, non doveva succedere.
Non era questo che volevo, ho cercato di evitarlo con tutte le mie forze, eppure è successo.
Non è giusto.

Un senso di fuoco e acciaio gli riempie il petto, ha una caldera al posto dello sterno, e lui sa, lo sente, che non potrà contenerla ancora per molto.
La morsa lo attanaglia ferocemente come l' impietoso artiglio di un rapace divino, che non ha niente di terrestre, e non potrà mai comprendere altro se non il capriccio della sua volontà, e stringe, stringe, con gioia crudele.
I pensieri turbinano come rapide di bruciante metallo fuso.
No, nessun corpo può resistere a tanta violenza emotiva.
Il suo piccolo cuore ha cercato di resistere, ma è ormai allo strenuo delle forze.
Abbandonarsi all'ignoto dell'annientamento totale, quella sarebbe la pace, finalmente.

Non potevo fare più di così.
Io lo volevo.
Ho fatto veramente
Tutto
Ho cercato di raggiungere quella meta, quella meta, quella meta...

Ora anche il respiro si sta facendo difficile.
Perchè, diomio, quanto possono essere profondi e immani i pozzi di un' anima!
Resistere, non gli importa più.

E allora tracanna un'altra sorsata di quell'intruglio maledetto che gli spacca lo stomaco,
sperando di trovare almeno un istante di intorpidimento nel prolungato preliminare al suicidio.

Invece no, quella scende e crea solo nuove ondate di odio.

Perchè.
Ho fallito, fallito, fallito.
Perchè.
Luce di illusioni.
Non voglio più dormire, non voglio più guardare le stelle, non voglio più niente.
Forse
bruciare all'inferno, questo voglio.

Lo sguardo è appannato, ma è una lama di diamante che perfora i veli della realtà.
Ha capito, certo, ma a che costo?
A che serve, poi, capire.
Cerca di non respirare, e alza gli occhi al soffitto.

L' Altro è ancora lì, sempre più ammuffito, e marcio, e malevolo.
Sta di fronte a lui, come una macchia di nero biasimo.
Lo fissa, lo deride.
Lo seziona con odio cieco.
Sempre più curvo e sciolto sulla sedia sghemba, lo guarda con quei due feroci buchi di nulla che ha al posto degli occhi.
Ah, lo si vede distintamente, il biasimo.
L'Altro sa che è colpa sua.
E' colpa sua e lo perseguiterà.

Che cazzo ha da guardare.

“Che cazzo hai da guardare, Cristo!”

L'altro, per sfotterlo, muove le labbra senza emettere un suono, poi lo guarda stralunato come se non avesse capito una parola di quel che lui gli ha detto.
La voce era già rotta, disperata, schizofrenica.
D'altronde, da un petto fatto di cavità oscure e coltelli di vetro, che voce poteva mai uscire?

Ma l'Altro sta in silenzio, e ricambia lo sguardo inquisitorio.
Passano lunghi minuti senza che nulla cambi.
A parte il sentimento di malessere di lui.

L'ubriachezza è già oltre la soglia di controllo, ed è una bestia cattiva.
Lui guarda il suo bicchiere vuoto riempirsi di liquido versato dall'altro suo braccio, senza che egli abbia avuto nemmeno il tempo di desiderarne.
Ormai è automatico,
stiamo bevendo per morire.

E pensare che avevo investito i miei anni migliori.
Ci avevo creduto.
Eccome se ci avevo creduto, era tutto quello che volevo.
Ho incessantemente sottoposto me stesso ad esercizi di volontà, per migliorare.
Per essere degno.
Quanto, quanto, quanto lavorìo indefesso dell'anima e del cervello, per raggiungere lo scopo.
E ho fallito così miseramente.

Scivolato nuovamente nel gorgo dei pensieri melmosi e acidi, egli passa interminabili attimi a fissare il fondo di un bicchiere che è come una baia in preda alla tempesta, che si svuota e riempie della rabbia dei marosi in pochi secondi.
Poi si ricorda dell' Altro, e solleva gli occhi per controllarlo.

E l' Altro è ancora lì, a fissarlo con quello sguardo così irritante, che gli ricorda di aver fallito miseramente. “Povero scemo”, sembrano dire i suoi occhi odiosi, “povero scarto reietto dell'umanità”.
Lui sente i suoi occhi ingrandirsi di odio cieco, e fissa l' Altro cercando di ucciderlo violentemente con lo sguardo.

Quanto cazzo ti odio.
Chi sei?
Che cazzo vuoi?
Merda!
Io ti uccido, merda!!

Gli si contraggono le mandibole, il suo stomaco si mette a lanciare fulmini e la sua testa si riempie di sangue acido e bollente.
Sente che sta per scoppiare.
Chi è mai questo fantoccio osceno che ha davanti, che lo deride crudelmente?

Pure, egli si accorge che l' Altro non è affatto sciocco o gratuito, nella sua derisione.
E' crudele. Per magico dono, l' Altro riesce a seguire i moti della sua anima per beffeggiarlo meglio.

E i due rimangono a fissarsi per lunghi minuti, di nuovo, con odio cieco e omicida.

Ma il bicchiere è vuoto, e Lui sente il bisogno di affogare nella peggior sostanza che possa esistere, non per espiare, ma per soffrire.
E ne versa, inasprito dall'atteggiamento dell' Altro, altri cinque, sette, nove bicchieri.

Ancora, fiumi di detriti e intime delicatezze che si infrangono con potenza deflagrante sul muro della sconfitta.
Lui sta sudando, sente il fegato pungere senza sosta, vorrebbe strapparsi i capelli e poi grattare, scavare nelle ferite con le unghie, fino a raggiungersi il cranio, e poi frantumarlo stringendo polso contro polso.
Lentamente, in modo da soffrire di più.

Come cazzo è potuto succedere, come ho potuto crederci, come ho potuto crederci, come ho potuto fidarmi, come...come...
Eppure ero certo che sarebbe stata la mia Vita, ero certo che fosse vero, che fosse la fortuna più grande d'ogni Uomo che sia mai esistito sulla Terra, e che fosse capitato a me, miracolo, e io avevo lavorato così duramente per esserne all'altezza, perchè sapevo che poteva esistere, e invece mi sbagliavo, dio, quanto sbagliavo, come ho potuto essere così stupido,
stupido,
stupido!

La bottiglia non urina più il suo veleno.
Lui riesce a far tanto, nella sua condizione delirante, di ordinarne bestemmiando un'altra.
Il veleno riempie di nuovo il bicchiere, che senza posa si svuota.
La sua testa ormai farfuglia solo atrocità insensate, e partorisce immagini di grottesche e ininventate torture per punirlo, o compiacerlo.

Sbavando, senza riuscire a controllare i movimenti della testa, lui alza appena un po' lo sguardo, e vede l' Altro che nel frattempo non ha smesso un solo istante di scimmiottarlo.
Ora la sua faccia sembra una collezione di secrezioni gastriche, odiosa e malvagia, piena d'odio forsennato, che gli risponde con lo sguardo vuoto.
L' Altro, bisogna ammetterlo, ha un certo talento mimico: sta piegato sul tavolino, sbavando come Lui, e continua a deriderlo senza posa.
E' un manichino della pazzia, un congegno diabolico, un guscio svuotato e riempito di ogni cosa spregevole e perfida.
Lo sbeffeggia senza mai smettere, è nato per quello.
Lui cerca di riguadagnare un momento di lucidità, senza risultato.

Ti odio.
Quanto ti odio.
Ti uccido. Tanto non ho nulla, non ho mai avuto nulla, me ne sono solo stupidamente illuso per un periodo.
Io non ho mai avuto nulla, mi stava solo mentendo.
Non aveva mai avuto serie intenzioni.
Che ho da perdere?

“Pezzo di merda schifoso, io ti uccido!
Ti ammazzo, ti sbudello, ti squarto e mi lecco le dita sozze delle tue interiora!
Ti spacco il cranio a sassate!
Maledetto, ti strappo la lingua a morsi!
Ti cavo gli occhi per darli ai corvi,
Ti estirpo la spina dorsale e me ne faccio un flauto!”

Solo allora si rese conto di urlare contro l'Altro, che stava in piedi come lui dall'altra parte del tavolo.
Stava urlando a perdifiato, sentiva la voce uscirgli dalla bocca impastata come una lama spezzata e ruvida, gli tuonava fin nello stomaco e gli premeva i bulbi oculari.

L' Altro, per risposta, non faceva che ripetere ogni azione di Lui, come un burattino malefico che inscenasse un dramma inutile.

“Io ti sgozzo, ti odio! Ti odio!”

Ormai definitivamente perduto, Lui raccolse tutta la forza esacerbata e nervosa che aveva in corpo, e si lanciò contro l'Altro con tutta la violenza che il suo corpo gli permetteva, per prenderlo a testate.

Colpiva, colpiva ciecamente, e vedeva stelle e forme colorate stagliarsi contro un buio doloroso, e non riusciva a smettere. Colpiva, affondava, e sentiva un odio senza fine, sentiva il sangue gocciolare e il dolore crepitare come fuoco, e allora ci dava dentro ancor di più, e sbatteva con tutta la violenza che aveva dentro, con tutta la disillusione che gli aveva squassato il petto, sfogava tutta l'amarezza del fallimento, della sua ingenuità, la vergogna dell'aver creduto.
E con forza inverosimile sbatteva, sbatteva, sbatteva la testa dell'Altro contro la sua, con un odio senza fine, mai sazio, mai più placabile.


Quando arrivò l'ambulanza, chiamata dal barista, quello che i medici trovarono fu un uomo con la testa sfracellata, materia cerebrale sparsa ovunque sul pavimento
e sullo specchio cui l'uomo era seduto di fronte.