Guarda la campagna.
La guarda.
La sente scorrere sotto di sé, sotto i suoi occhi.
Sente le radici da sotto i suoi piedi allungarsi, sottili, come piccole antenne biologiche, cercare la terra.
La terra bagnata, la terra che è casa.
Sente il fresco velo dell’umidità dell’erba solleticare i suoi nuovi pedicelli ambulacrali.
Una stella marina terrestre.
Col mento appoggiato al palmo, guardava fuori dal finestrino, completamente assente al treno che la ospitava e totalmente assorbita dall’essenza della terra.
Persino dentro la cabina pressurizzata poteva sentirne l’odore muschiato, verde, selvatico e dolce.
Terra che mai s’ammansisce, generosa come una madre, giumenta d’ogni capriccio dell’uomo.
Cercava di carpire il senso profondo del suo ultimo pensiero, che aveva accuratamente costruito partendo da un nulla, un minuscolo nulla: giocando a Go con la logica ne aveva estratto un succo purissimo, eppure tanto astratto da non riuscire a verbalizzarlo.
Ma la terra stava lì, e aveva cominciato a chiamarla.
Campagna, fitte righe orizzontali, dischi d’albero e margini frastagliati.
Ritmo pittorico continuo, infinito, ipnotico.
“Eppure ci deve essere un segreto, un segreto da poter carpire. Da custodire”.
Un segreto di cui farsi una collana di saperi da intrecciare con tutto il resto, per dare senso, ordine.
Un minimo comune multiplo, la matrice del frattale.
“Dove si perde, dove si perde, dove va questa donna assorta, con le radici aeree a cercare la sua madre primigenia, con la testa tanto in alto da sentire il primo freddo siderale sulla fronte”.
E’ che aveva imparato che tutto è appiglio in tempi d’alluvione.
Tutto serve.
Anche quel velo argenteo che le copriva gli occhi e il cuore.
Quel velo sottile che impediva l’osmosi, che schiacciava il respiro, che toglieva lucentezza alle cose.
Ma aveva imparato a ridere e a sorridere anche attraverso esso.
Alle volte pensava che potesse essere una perversa forma di autodifesa.
Sapeva che ogni cosa del suo sé aveva un compito, perciò, col tempo, invece di censurarsi, ascoltava ogni voce – sì, ogni voce, a rischio di diventare schizofrenica -
ma ogni voce doveva potersi esprimere, perché sentiva d’avere in sé ben di più della summa di se stessa.
Forse, e dico forse, aveva qualcosa di divino, ereditato dal Padre. O dalla Madre.
Se esiste un Dio.
Sicchè abbracciava in sé tutto quello che poteva e il suo contrario, perché dei dualismi le interessavano le contraddizioni, delle idiosincrasie la capacità di allargare il sensibile; sapeva che è nel non detto, nel non visto, nel non ascoltato, in ciò che si rifiuta, che stanno spesso le più piccole, palpitanti verità.
Non si scappa, non si fugge.
Non per eroismo, ma per sete di conoscenza.
Cosa c’è oltre, cosa viene dopo. Cosa c’è qui sotto. Cosa c’è dietro.
Avesse potuto scomporre ogni parte dell’esperibile in un ipercubo l’avrebbe fatto.
Ma ahimè le sue eredità divine si fermavano alla mera ontologia.
Si era fatta sera, la campagna era diventata grigia come il fumo della Londra industriale, e il cielo infinito blu come il lapislazzuli di Babilonia.
Qualche timida stella cominciava a tremare nella propria luce, e l’orizzonte si faceva via via più confuso.
Il processo di estensione non era terminato: nel seguire il filo dei suoi pensieri, sempre più rarefatto, aveva perso il contatto con la realtà.
Ma ora che aveva visto la sera, era ritornata per un attimo al tangibile.
E diamine, si sentiva strana.
Si sentiva improvvisamente troppo piccola per il sedile, e le sembrava di sbattere la testa sul soffitto della cabina quando il treno sobbalzava leggermente.
Muovendo solo gli occhi, si guardò intorno: era sola.
Aveva la sensazione di non riuscire a percepire completamente il suo corpo, né riusciva a muovere la testa agevolmente.
Pensò che forse avendo mantenuto troppo a lungo la posizione in cui era seduta, probabilmente il corpo s’era intorpidito e aveva perso sensibilità.
Non riusciva a muovere le braccia né le gambe.
Solo gli occhi.
Sforzandosi molto riusciva a girare la testa di pochissimo, e con un certo dolore.
In realtà la cosa non la preoccupava granchè, la sua attenzione era comunque assorbita altrove, e cioè nella sua testa.
Si rimise a guardare la campagna.
Si era da sempre considerata figlia della campagna e del mare, come d’altronde erano le origini dei suoi genitori: il padre dalla terra, agricoltore, e la madre dalla laguna, creatura d’acqua.
Quando era molto piccola sua madre soleva chiamarla col soprannome di mesquiza, che nel dialetto locale significava “dell’acqua salmastra” riferendosi giocosamente alla doppia natura che la bimba aveva in sé.
Le doleva il collo, ma non riusciva ancora a muoversi.
L’acqua salmastra non è acqua che si muove: è il punto dove l’acqua dei torrenti e dei fiumi raggiunge il mare, e crea delle pozze di una soluzione che tende a rimanere immobile nella sua zona.
Questo la donna lo sapeva, ma all’improvviso ne realizzò il simbolismo.
Sua madre ci aveva visto lungo.
Tutto questo pensare, questo pensare costante: certo dava i suoi frutti.
Le permetteva accesso a strati più profondi, forse ad una maggiore comprensione di alcune aspetti delle cose.
Ma anche più confusione.
Dietro una domanda non trovava mai una risposta, ma altre dieci domande, in un ciclo continuo di discesa nel significato, sino a quando pure quello era smarrito, svuotato. Saturato semanticamente.
E buon dio, quanto si espandeva quella saturazione!
Arrivava ad inondare e a seppellire sotto una lucida coltre di confusione tutto quello che toccava, lasciando solo uno specchio dove la donna guardava la sua figura riflessa senza più riconoscersi, come un Narciso amnesico.
Pensare, pensare, pensare, senza mai una azione.
Senza una carne per quei pensieri, senza concludere la loro forma in qualcosa di concreto, che indirizzasse ed esaurisse la loro energia, come è in Natura, nell’economia dell’esistere.
Inattiva, immobile: come l’acqua salmastra.
Cercò di raddrizzare la schiena, che era diventata dura.
Ma non riusciva a muoversi.
Continuava a guardare la campagna ormai nera, un dipinto di bitume a pennellate libere.
Astratta pure quella.
Irraggiungibile.
Diafana e incomprensibile, come la donna percepiva la profonda realtà delle cose.
Senza senso, senza un perché, senza un ordine.
Nessuna logica.
Nessun appiglio.
Nessuna possibilità di agire.
Come orientare qualsiasi azione in tanta insensatezza?
Era meglio rimanere immobili: un atto di protesta, secondo lei, ma anche la risposta più legittima all’assurdità dell’essere vivi.
Si accesero le luci nella cabina.
Gli occhi della donna, fissi sulla nera campagna ridotta ormai un guazzabuglio di segni, ci impiegarono qualche minuto ad abituarsi alla luminosità.
Per un attimo le sembrò che ciò che vedeva all’esterno fosse stato dipinto dal figlio impossibile di Twombly e Rothko.
Questo fu l’ultimo suo pensiero mentre, avendo recuperato la vista, notò i riflessi provenire dal vetro del finestrino dove si specchiava lei stessa.
Aveva notato, dapprima impercettibilmente, dalla distanza immane che separava la sua contemplazione interiore dall’esterno, dal reale, delle macchie bianche attorno alla sua sagoma.
Riflessi luminosi in tutto quel nero.
Cercò di metterli meglio a fuoco con gli occhi, non potendo muoversi all’indietro.
Li osservò per interminabili minuti senza capire cosa fossero.
Sembravano piccoli batuffoli di cotone, ma avevano una forma più definita.
Col passare dei minuti si rese conto che alla base di ciascuno di essi partiva una piccola riga scura, nodosa.
Percorrendo una di esse con lo sguardo, notò che mano a mano che scendevano verso il centro, il diametro della riga si ispessiva.
Percepì, laddove dovrebbe esserci stata la sua ombra, una sorta di rugosità indistinta, grigiastra.
Non riusciva a capire cosa stesse vedendo.
Cercava il riflesso del suo viso, dei suoi abiti, ma non lo trovava.
Al suo posto c’era questa cosa organica, indecifrabile.
Ma dov’era lei? Non si trovava.
Con uno sforzo immane, puntando il gomito sul poggiolo del sedile, cercò di spingersi un pò più distante dal vetro, per mettere vedere meglio quanto stesse osservando.
Ottenne, con immensa fatica, un movimento di qualche centimetro.
E vide che quella cosa riflessa si allontanava dal vetro della stessa distanza e con lo stesso sforzo da lei profuso.
Una grande agitazione calò su di lei in un istante: quella cosa non stava fuori.
Era il riflesso proveniente da un oggetto all’interno dalla cabina.
La distanza ottenuta le permise di analizzare meglio quanto stesse vedendo: rimase ad osservare.
Quelle forme le erano familiari, ma non si ricordava dove le avesse già viste.
Rimase così per un lasso di tempo interminabile, a guardare.
Poi, fulminea e vertiginosa, fu colta dall’illuminazione.
Vide distintamente formarsi, in ognuno dei batuffoli bianchi, la forma di petali.
Riconobbe le linee nodose per quello che erano: rami.
Osservò il centro di quella che avrebbe dovuto essere la sua figura, non vedendoci altro che un tronco, e non il suo torso.
Sognava? Allucinava?
Avrebbe voluto alzarsi di scatto, saltare via da quella realizzazione, provare a se stessa che poteva ancora muoversi.
Avrebbe voluto, ora, realizzando l’assurdità di quanto era accaduto, tornare indietro.
Smettere di rimanere immobile, tornare ad agire sull’esistere, sul cambiare le cose, le situazioni.
Avrebbe voluto rinunciare all’immobilità che l’aveva sempre accompagnata.
Invece quell’eterno pensare senza soluzione, senza azione, era cresciuto dal suo interiore come un seme, alimentato da anni di immobilità, sino a prendersi pure la sua carne, trasformandola in altro.
Cercando di ascoltare i limiti della sua figura, sentì che i suoi piedi non erano più gli stessi, ed afferravano il pavimento con una forza sovrumana.
Sentì la rigidità nelle gambe, nelle braccia, e spostando la sua attenzione sull’epidermide, sentì che non era più liscia e sottile come l’aveva sempre percepita, bensì spessa, rigida, come fosse...corteccia?
Trovò ironico e crudele che il fato avesse scelto per lei una forma così elegante e positiva, estetica, romantica. Una sorta di irrisione, forse.
Ci volle ancora qualche istante, per intendere.
Sgomenta, atterrita, strabiliata, capì all’improvviso che quello che stava vedendo era il riflesso della sua nuova forma, una manifestazione esterna del suo interiore.
La forma segue la funzione, dopotutto.
Un albero di magnolia di forma vagamente antropomorfa stava seduto – sì, seduto!- laddove il suo corpo avrebbe dovuto trovarsi.
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On repeat: